I Cattolici e la Resistenza (da una ricerca pubblicata sul settimanale "Prospettive" del 30 Aprile 1989)
Quest'anno la storia, come materia d'esame, l'ha fatta da padrona: sia nei Licei che alle Magistrali è risultata fra le quattro materie orali, cosicché i professori intensificheranno le lezioni e i ragazzi si butteranno a capofitto su Cavour e Giolitti, su Curtatone e la sconfitta di Lissa, ma, come sempre, ignoreranno la guerra di Spagna e il genocidio degli ebrei, l'insurrezione di Varsavia e le fosse di Katyn, insomma la Resistenza. E mentre si sa tutto sul Risorgimento che pure lacerò profondamente le coscienze perché mise gli Italiani dinanzi al dilemma di andare contro il potere temporale del Papato e quindi la scomunica, la Resistenza al contrario vide tutti uniti contro il nazismo e quei pochi che aderirono alla repubblica di Salò (e fra questi ultimi, c'era pure chi lo aveva fatto per profonda coerenza morale, vedi Giovanni Gentile). La Resistenza fu un movimento che coinvolse ogni strato sociale, giovani e vecchi, donne e uomini, militari e clero e, se durante il ventennio fascista, Gramsci era morto in galera, Sturzo era stato costretto ad emigrare e Gobetti, Amendola, don Minzoni erano morti per le percosse subite. Su questa ignoranza, o meglio insofferenza, uggia, azzardo un'ipotesi: questo rifiuto non sarà dovuto perché si è lasciato, all'indomani della Liberazione, che il Partito Comunista soprattutto si appropriasse di un patrimonio che era ed è di tutti e se n'è servito fino a quando gli ha fatto comodo, rispolverandolo nelle cerimonie celebrative, sovrapponendo la bandiera rossa alla bandiera che era, ripeto, di tutti? E così i morti della Resistenza sono morti, morti due volte: alla vita e al ricordo. Sconosciuti alle giovani generazioni che ammirano l'Altare della Patria ma passano ignari dinanzi alle Fosse Ardeatine, i Torinesi passano dinanzi al Martinetto ignorando i fucilati del Comando Regionale Piemontese e i Triestini passano senza rabbrividire vicino alla famigerata Risiera di S. Saba.
Sfogliando le «Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea» è questa la nota che balza evidente: accanto alla fede laica di coloro che danno la vita nella ferma convinzione che verranno ì compagni a vendicarli, c'è la fede religiosa di coloro che perdonano i loro carnefici e accettano il sacrificio della loro vita come volontà di Dio. E se gli unì hanno imbracciato un'arma per combattere il nemico, gli altri erano inermi e la loro unica arma era la preghiera e se i primi erano inquadrati nelle Brigate e Divisioni fino a formare un vero e proprio esercito, gli altri erano infiniti singoli uomini e donne, uniti solo nella loro volontà di opporsi al male. Come ha scritto T. Mann «In queste lettere di addìo, cristiani e atei si ritrovano nella fede della sopravvivenza, che rende tranquilla la loro anima». Molto si è scritto sui combattenti di una determinata parte e più numerose sono le testimonianze scritte lasciateci, ma senza voler pensare che si trova più facilmente ciò che si cerca, anche data per certa l'assoluta buonafede dei curatori delle «Lettere», comunque tutti di parte comunista, c'è da sottolineare che quelli che hanno avuto il tempo e la possibilità di scrivere furono coloro che, catturati, furono poi talvolta processati e indi uccisi. Ma come potevano scrivere migliaia di poveri contadini, casalinghe, sacerdoti uccisi per rappresaglia sul posto come ad es. accadde per i cinque parroci di Marzabotto? Dalla relazione dì Antonietta Benni, educatrice orsolina, sopravvissuta alla strage di Marzabotto, richiesta da S.E. Card. Nasalli Rocca nell'autunno 1945, riporto: «A S. Giovanni... Suor Maria delle Maestre Pie di Bologna che in quell'epoca era coi suoi cari, ha trovato la più orribile delle morti». «Il più feroce eccidio resta tuttavia pur sempre quello del Cimitero di Casaglia dove (ha trovato la morte) l'ottimo giovane parroco di S. Martino ed economo spirituale di Casaglia, Don Ubaldo Marchionni... era ben noto ai Tedeschi ed ai fascisti... trovarlo e fucilarlo, chissà in qual modo, è stato tutt'uno». In quell'eccidio trovarono pure la morte, il parroco di Sperticato, don Giovanni Fornasini e don Ferdinando Casagrande, parroco da cinque mesi di alcune frazioni di Marzabotto. Ma anche tra coloro che furono arrestati e poi fucilati, troviamo testimonianze fervidissime di fede come nel belga Jules Gengler di 20 anni, studente di medicina che così scrive: «Cari genitori, ecco il mio libro di preghiere... L'avrò utilizzato per la mia ultima messa che ho avuto l'onore di servire con frate Ctément. Ho fatto l'ultima confessione della mia vita che offro al Cristo... Vado dritto in Cielo: com'è buono Dio che ha voluto scegliermi tra migliaia, per andarlo a vedere, sapendolo prima! Che felicità!... presto potrò glorificare Iddio e proteggervi... ho compreso solo allora come Dio ci ami e sono fiero di morire da martire cristiano. Che consolazione! ». E numerosi sono i sacerdoti di varie nazionalità che hanno lottato per la Libertà: da Emmanuel de Necker, Joseph Peeters, belgi a Jo-sef Jilek, cecoslovacco, allo studente in teologia il danese Christian Ulrik Hansen ad Hermann Lange, cappellano cattolico tedesco, ad Aldo Mei, Vicario Foraneo del Vicariato do Monsagrate (Lucca), arrestato e fucilato dal Comando tedesco di Lucca sotto l'imputazione di avere nascosto nella propria abitazione un giovane ebreo. Tutti, indistintamente, trovandosi alle soglie della morte, riaffermano la loro fede cristiana, non si pentono di avere aiutato chi aveva bisogno di loro né di avere lottato per la libertà e per la loro Patria. La loro fede è salda, non un solo attimo di esitazione o il più piccolo dubbio. La morte non fa paura, è l'inizio di una nuova vita, la vera, quella che consentirà loro di raggiungere Dio e la pace eterna. Anzi così Piero Caleffi sintetizza lo stato d'animo di chi ha vissuto l'atroce esperienza dei campi di sterminio: «... è difficile immaginare che una società estremamente progredita... abbia potuto germinare... il fenomeno dei campi di sterminio nei quali oltre undici milioni di creature umane... furono distrutte con una «tecnica» così efferata da indurre alla tentazione di disperare perfino delia efficacia del messaggio cristiano e degli ideali di elevazione umana; se non fosse che proprio l'atrocità di quell'esperienza ha suscitato in non pochi scampati un ardore impetuoso, un bisogno di credere, di credere proprio perché abbiamo visto con sgomento l'abisso profondo dell'animo dei nostri persecutori... Basta un'anima salvata per smentire la fatalità della dannazione. E per questo noi scampati ricordiamo e parliamo e raccontiamo». E, non per rinfocolare odi, ma per un doveroso riconoscimento a chi testimoniò con il sacrificio della propria vita la sua fede, rievochiamo alcuni episodi poco conosciuti per rinfrescare la memoria a chi tende a dimenticare e consegnare il ricordo ai giovani che non sanno.
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