Appunti  

 

 

C'era una volta il teatro

 

 

C’era una volta il teatro d’autore: si diceva “La locandiera” di Goldoni, la “Tosca” di Puccini, “Edipo Re” di Soflocle.
Poi, nel ‘900, comparvero e giganteggiarono nelle locandine i nomi degli interpreti, nomi che facevano impazzire il pubblico degli amatori: la Duse, Ida Galli, la Merlini, Gandusio, Ricci, Zacconi. Nel secondo dopo-guerra continua la tradizione del grande attore, continua la stagione degli interpreti eccezionali che sono ancora vivi nella memoria degli ultra-sessantenni da Randone a Benassi, da Gassman a Stoppa , da Sbragia a Lionello a Turi Ferro nel campo maschile, dalla Pagnami alla Frignone, dalla Morelli alla Morione per citare solo quelli che non sono più vivi. I loro nomi nereggiano nelle locandine, mentre comincia ad apparire, in piccolo e in fondo il nome del regista.
Poi, passo dopo passo, inizia l’ora del “regista” e sono nomi entrati nella storia del teatro di prosa e in seguito anche in quello della lirica. Si comincia a citare “Le tre sorelle” di Visconti, l'Arlecchino servo di due padroni” di Strelher, le regie di Zeffirelli, di Squarzina, di Enriquez, di De Lullo. Sono mitiche le loro messe in scena che rispettano “rigorosamente” i testi, dando però una loro impronta ed esaltando anche gli interpreti che, sotto la loro direzione, eprimeranno il meglio della loro arte.
Ma il tempo passa e, tranne Zeffirelli, i grandi registi del passato lasciano il campo agli ultimi arrivati.
Gli addetti ai lavori si lamentano della crisi del teatro dal pubblico in calo, chiedono maggiori sovvenzioni allo Stato, invece di domandarsi del perché il pubblico volta le spalle, esce spesso alla fine del primo atto, non rinnova gli abbonamenti. Ho sentito personalmente tanti amici e spettatori commentare disgustati certi spettacoli, ho visto vuoti significativi perfino alle “prime” e viceversa vedere aumentare gli spettatori a spettacoli “normali”, senza le cosiddette “attualizzazioni”, divertirsi o commuoversi e applaudire calorosamente alla fine.
Sono spettatori ignoranti? Che non capiscono l’arte del “nuovo”? legati ancora al folklore spagnolo della “Carmen”, al romanticume di “Giulietta e Romeo”? E se fosse veramente come sostengono certi critici, il pubblico non fa parte dello spettacolo? Non ha forse il diritto di essere rispettato anzicchè snobbato con disprezzo?
Vogliono svecchiare, rivisitare, attualizzare il teatro e invece di cercare di scoprire nuovi testi, saccheggiano, espropriano, devastano i classici. Gli autori sono citati in lettere minuscole, gli attori (dove sono i grandi di una volta?) sono costretti ad acrobazie e a sottoporsi a folli manomissioni. E così al severo Teatro Greco di Siracusa sfilano divise naziste, locomotive, rottami d’auto, dività in frac e cilindro e altre simili amenità che vengono ammirate da turisti, scolaresche e certi critici pronti ad esaltare tutto ciò che è “nuovo”.
E così nell’ultima “Carmen” rappresentata al Bellini di Catania ecco Don Josè essere “panciuto” col rito mafioso un ragazzo essere sciolto nell’acido, una Micaela aureolata di luminosi crocifissi. Eppure questa regia di Vincenzo Pirrotta risulta di gran lunga accettabile se la si paragona a quella scaligera di Emma Dante dove, tra le tante astruserie, don Josè ed Escamillo entrano in scena scendendo da un ascensore. O quella di Calixto Bieito al Massimo di Palermo dove, oltre a un ammasso di stranezze incomprensibili, don Josè porge a Carmen le mutandine che le ha sfilato nell’amplesso precedente.
Spero che anche questa moda finisca presto e nel frattempo mi rifarò gli occhi e le orecchia con le video cassette e le incisioni dei grandi protagonisti del passato: la Verrete, la Baltsa, Corelli, Carreras, von Caravan, Levine, Mehta.