Dittatura del politicamente
corretto
Esiste
ancora, in Italia, la libertà di parola? Non mi riferisco, sia ben
chiaro, alla licenza dell’insulto che ormai è anche abusata specie da
onorevoli e senatori, ma alla libertà di potere esprimere il proprio
pensiero, la propria opinione su qualunque argomento. La domanda mi è
venuta spontanea dopo la sollevazione generale suscitata da
un’intervista a Domenico Dolce che manifestava la sua personale opinione
sulla famiglia tradizionale. Apriti cielo! Contro lo stilista siciliano
famoso in tutto il mondo e di cui gli Italiani tutti dovrebbero essere
fieri si è scatenato l’anatema universale! Da Elton John all’ultima
subrettina si è invocato l’ostracismo universale come era già accaduto
in recente passato con la Barilla, rea di pubblicizzare la classica
famiglia da “Mulino Bianco”: E’ di pochi giorni fa la notizia che, a
Firenze, i sostenitori della “NO-TAV” hanno impedito al magistrato
Giancarlo Caselli di prendere la parola così come lo si era impedito di
parlare ad uno scrittore israeliano. Così ritorno alla domanda
iniziale: che libertà di parola c’è in Italia se un qualunque cittadino
non può esprimere la propria opinione non in sintonia col “
politicamente corretto”? Perché non mi è permesso dichiararmi contraria
a tutte le manipolazioni della fecondazione e debbo invece inneggiare ai
progressi della scienza e considerare l’utero come una qualunque merce
in esposizione al supermercato dove si può scegliere a piacimento il
prodotto inscatolato salvo poi a gettare nella spazzatura il
contenitore? Mi riferisco all’utero in affido, all’inseminazione
artificiale, alla eterologa (qualcuno mi spieghi perché in tal caso il
marito non si considera un cornuto!). E perché devo dire “nero”
riferendomi in tal modo al colore della sua pelle e non “negro” che ,
per me, significa riferirmi ad una cultura, ad una civiltà diversa ma
non inferiore? E tutte le altre metafore ipocrite considerate
scorrette da “non vedenti” “non udenti” “diversamente abili” “operatore
ecologico” “dirigente scolastico” e così via come se mutando i termini
cambiasse la sostanza. In nome del “politicamente corretto o
scorretto” ci costringono ad una melassa insipida di pensiero
demonizzando l’incauto che si permette di non essere allineato ad un
conformismo nauseante e castrativo. Mi ribello a tutto ciò e
continuerò a considerare la famiglia classica degna di questo nome, a
considerare il desiderio di un figlio come, appunto, un desiderio e non
un diritto assoluto e, si, magari a chiamare un negro, negro.
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