Come vissi l'arrivo delle
Fortezze Volanti
L’anno che è entrato da poco è il settantesimo
anniversario di quel 1943 ricco di eventi che cambiarono la storia
d’Italia.
Anche la nostra città ne fu coinvolta e le ferite subite furono
rimarginate dopo decenni.
Ero una ragazzina ma mi interessavo di quello che succedeva fuori dalla
cerchia cittadina e capivo, malgrado la rigida censura fascista imposta
a stampa e radio, che le cose stavano andando male per il nostro Paese.
Da Stalingrado era partita la controffensiva sovietica anche se non si
poteva immaginare la catastrofica ritirata della nostra Armata
strombazzata dalla propaganda del regime.
In Africa le nostre truppe erano state respinte in mare (altro che
entrata trionfale al Cairo sul cavallo bianco dell’impennacchiato
duce.).
E Malta, lungi dall’arrendersi sotto gli attacchi dell’Asse, continuava
ad essere la base delle incursioni aeree.
Ma, fino a quel fatidico 23 marzo, a Catania la guerra si era sentita
poco, tranne sul fronte alimentare, dove fioriva il mercato nero,
“l’intrallazzo” e già la cinghia era arrivata al penultimo buco.
Anche se le scuole erano ancora aperte, noi ragazzine sentivamo il peso
delle privazioni. Genitore, fratelli, zii richiamati sotto le armi e
alcuni già sul fronte; vestiti con stoffe autarchiche, scarpe con suole
di sughero: cibo più che spartano con abbondanza di patate e verdure.
Unico svago la lettura e ancora qualche film con attori che allora erano
popolarissimi: Amedeo Nazzari, Roberto Villa, Leonardo Cortese e un
giovanissimo Massimo Girotti, l’unico che, anche dopo la guerra,
continuerà una bella carriera.
Ed era apparso, nel ’42, uno scandaloso seno nudo , quello di Clara
Calamai, seguito dall’altro di Doris Duranti, notoriamente amante del
gerarca Pavolini.
La vita scorreva tra scuola e casa, come dicevo, cinema e letture. Certo
c’erano i bombardamenti inglesi ma si limitavano agli obiettivi
militari: l’aeroporto soprattutto, quello di Gerbini e ormai i catanesi,
al suono delle sirene, continuavano a fare quello che stavano facendo. I
più prudenti andavano al più vicino rifugio che erano comunque
tutt’altro che sicuri: qualche trave di legno a rinforzare androni,
cantine, sottoscale dove sarebbero morti sicuramente se una bomba li
avesse centrati.
Arriviamo
dunque, a quel 16 aprile. Era passata da poco la mezza e mi trovavo a
casa, forse indisposta, e non a scuola dove frequentavo quello che era
allora il III° ginnasio inferiore nella sede del Cutelli all’angolo fra
via Ventimiglia e via Maddem, famigerata strada riservata alle “case
chiuse”.
Le mie sorelle non erano ancora rientrate dall’università dov’erano
iscritte ma mia madre aveva già preparato il magro pranzo – pasta al
burro e patate lesse – per me e per la mia nipotina ( mio padre e mio
cognato erano sotto le armi in Grecia).
Stavo iniziando a portare il primo boccone in bocca quando si avvertì un
rombo strano, un forte rumore di aereo subito seguito da uno spaventoso
boato, la casa tremò come una forte scossa di terremoto ma il boato fu
seguito da un altro ed un altro ancora.
Fu il primo bombardamento americano su Catania, il primo di una lunga
serie, quello che distrusse Palazzo S. Demetrio ai Quattro Canti. Ci
furono i primi morti. Le Fortezze Volanti tornarono l’indomani e il
giorno dopo.
Di colpo la guerra, cieca e feroce, era arrivata a Catania. Si contavano
i morti, si ricoverarono i feriti negli ospedali, divennero tangibili le
distruzioni che fino a quel giorno avevamo visto nei documentari
commentati con toni trionfalistici quando le macerie erano nelle città
polacche, francesi o inglesi e in tono sdegnato se erano a Napoli,
Palermo o Genova.
L’aria della sconfitta cominciò a respirarsi anche nella nostra città
che, poco a poco, si svuotava degli abitanti. Cominciava “lo
sfollamento”; i catanesi fuggivano dalla città verso i paesi vicini o
nelle più remote campagne. Le scuole si chiusero, tutti promossi ma
nessuno ne gioì dell’improvvisa vacanza, il futuro aveva un volto scuro.
Anche io con madre, sorelle e nipotina abbandonai Catania. Partimmo per
S. Gregorio dove una donna con un figlio piccolo e il marito al fronte
ci affittò una sua camera.
Partimmo su un carretto con poche masserizie e il cuore stretto
dall’angoscia.
“Saremmo tornati un giorno? E la casa l’avremmo trovata in piedi?”
E mentre il carretto percorreva la salita per S. Gregorio, uno scampanio
ci raggiunse: annunciava la Resurrezione.
Allora le campane annunciavano la Pasqua alle 11 del Sabato Santo.
Ma per i catanesi la Quaresima non era ancora finita.
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