Le mie favole
Le favole che mi raccontava mia madre erano le vecchie
tradizionali fiabe che hanno avute narrate i bambini della mia
generazione: Cenerentola, La bella addormentata, Pelle d’asino che, fra
tutte, preferivo. Però non amavo molto quelle fiabe, anche se spesso,
quando fui in grado di leggere passavo molte ore sui tanti libri di
fiabe che mi venivano regalati.
Ma
le “mie” fiabe erano altre, altre le protagoniste: Lucia, Gilda,
Leonora, Violetta, Norma, queste erano le mie eroine; proprio così, le
eroine delle opere liriche di cui i miei zii erano appassionati cultori.
Era soprattutto zia Teresa che, agucchiando, mi raccontava la trama dei
libretti d’opera. Zia Teresa era la sorella maggiore del mio padrino –
in tutto erano stati sei figli, tre maschi e tre femmine – ma ne
vivevano ai tempi della mia infanzia solo due sorelle e un fratello, zio
Gigi; zia Teresa me la ricordo come una vecchietta che sembrava essa
stessa uscita da una fiaba, tutta bianca e grinzosa, dalle trecce
avvolte intorno al capo, dolce e affettuosa, tanto paziente con me che
le stavo accucciata ai piedi mentre lei mi narrava le tristi lacrimevoli
istorie di Lucia o Gilda, del perfido Conte di Luna o dell’altrettanto
perfido Jago. Conobbi così dalla sua voce la trama di moltissime opere,
escluse quelle di Wagner, da mio zio, appassionato verdiano, aborrito.
C’era nel salone grande della sua casa, un pianoforte a pianola con i
rulli di moltissime opere anche rare, ad es. la “Saffo” di Pacini ma ne
erano bandite rigorosamente quelle di Wagner. Era uno dei miei
passatempi preferiti, stare a fare scorrere quei rulli, muovendo solo i
pedali e illudendomi di essere io l’esecutrice di quella musica.
La conoscenza delle trame mi facilitava poi l’ascolto delle opere quando
iniziava la stagione lirica al Teatro Massimo e a cui mio zio era
particolarmente abbonato. Terza fila, palco n.9; terza fila, quella
degli intenditori perché la musica tende a salire ma non troppo poiché
la lirica è anche spettacolo visivo.
Io
sedevo naturalmente al centro del palco col vestitino di velluto
azzurro, i gomiti puntati sul parapetto di velluto rosso e il binocolo
di madreperla dal lungo manico, rivolto verso la scena. Ho assistito fin
da piccola alla messa in scena al Teatro Massimo di spettacoli
memorabili, anche se non ero in grado allora di apprezzarli in modo
adeguato. Fra tutti gli spettacoli, ricordo la straordinaria “Carmen”
di Gianna Pederzini che è diventata nel tempo la mia opera preferita
e ho avuto modo, fino ad oggi, di vederne e ascoltarne infinite
versioni, con la Simionato, la Callas, la Cortez, la Verrete, la
Berganza e altre ancora ma nessuna è mai più riuscita a darmi quel
brivido, quell’emozione, a ricreare quell’atmosfera della Pederzini. Che
vidi poi, da vicino, ospite da mio zio, come la maggior parte dei
cantanti che passavano da Catania.
Conobbi nella sua casa non solo la Pederzini – bella
donna oltre che eccelso mezzo soprano – ma anche Maria Caniglia, Iva
Pacetti, Maria Carbone, Sara Scuderi, Margherita Carosio e altre di
cui sarebbe lungo elencare i nomi. Erano soprattutto donne dato che mio
zio era stato sempre sensibile al fascino femminile ma talvolta venivano
a pranzo anche celebri tenori, Gustavo Gallo o Galliano Masini e
il famoso baritono Titta Ruffo. Suppongo che siano venuti altri
cantanti ma io ricordo distintamente solo lui, Titta Ruffo; forse il
nome insolito, forse la statura che a me bambina parve gigantesca, forse
la sua voce ( mi sembrò da “orco” delle favole) ma mi restò
indimenticabile col suo pastrano dal gran bavero di astrakan come
usavano gli uomini importanti del suo tempo, anche mio zio ne aveva uno
ma non così grande.
Questi erano gli eroi delle mie favole, uomini e donne che vedevo da
vicino e incarnavano poi sulla scena tanti tragici personaggi le cui
storie facevano venire i lucciconi agli occhi della mia cara, vecchia
zia Teresa.
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